Che materiale è il PLA?

Già dalla fine degli anni 2000 sono state introdotte nel mondo del Beverage bottiglie in PLA, un materiale plastico derivante dall’amido estratto dal mais oppure da un’alga marina chiamata agar agar, o dalla canna da zucchero o dal tubero della manioca. Le bottiglie in bioplastica (erroneamente conosciute come bottiglie in amido di mais) in teoria hanno il vantaggio di poter essere smaltite nel rifiuto umido od organico di casa.  Questo perché negli impianti di compostaggio dove la temperatura raggiunge i 60°C, degradano entro 6 mesi, trasformandosi in terriccio e sviluppano biogas da utilizzare per usi civili.  La plastica biodegradabile sembra quindi essere la soluzione ai problemi attuali di inquinamento.

Tuttavia, i consumatori non sanno distinguere le bottiglie in PLA da quelle in PET, anche a causa di istruzioni confuse sulle etichette o proprio di mancanza di informazione generale.

Cosa sono le bottiglie in PET?

Il PET (polietilene tereftalato) è una resina termoplastica adatta al contatto alimentare, facente parte della famiglia dei poliesteri. Riciclabile al 100%, il PET non perde le sue proprietà fondamentali durante il processo di recupero e la si può così trasformare ripetutamente per produrre nuove bottiglie o altri oggetti. Gli imballaggi di PET, utilizzati principalmente per il settore delle bevande, rispettano le severe condizioni igieniche imposte in ambito alimentare, cosmetico e farmacologico.

Il PET viene indicato con simbolo recante il suo nome all’interno di un cerchio o poligono esagonale, oppure con il simbolo triangolare del riciclo.

Bottiglie plastica biodegradabile Dove si butta?

Le bottiglie in PLA, anche per mancate istruzioni da parte dei Comuni sulla raccolta dei rifiuti, vengono conferite nella plastica, causando un enorme disguido ai riciclatori durante il processo di separazione delle plastiche. Se si volessero riciclare, dovrebbero essere raccolte separatamente e anche così si avrebbero problemi causati dai pochissimi impianti di riciclo esistenti.  Un’altra questione è legata al tappo in HDPE, che dovrebbe essere tolto interamente dal consumatore al punto di raccolta.

Case study: Sant’anna bottiglia biodegradabile

L’azienda produttrice di acqua minerale e thé Sant’anna è stata la prima in Italia ad investire in una linea di produzione per bottiglie in PLA.  Una scelta rivoluzionaria e all’avanguardia che però non ha dato i suoi frutti, come si aspettava l’azienda.  Da una parte la problematica dello smaltimento e dall’altra il costo più alto del prodotto finito, causato dal costo della materia prima, il PLA.

In ogni caso l’azienda sostiene che la Santanna BIO bottle oltre a rispettare l’ambiente perché di origine vegetale permette un risparmio del 50% di energia in produzione con l’abbattimento del 70% in emissione CO2. In totale, l’energia, nel processo produttivo delle preforme è stata ridotto del 60% (fase di essiccazione del granulo), del 30% in fase di fusione e del 70% nel ciclo di raffreddamento.

Ahimé, se non fosse per i bassi volumi di vendita che, come si può immaginare, causeranno alti costi produttivi.

Case Study: San Benedetto

Oggi la San Benedetto bottiglia biodegradabile non è infatti biodegradabile, ma utilizza un mix tra bottiglie in PLA ed in PET alleggerito per la soluzione Ecogreen.  La San Benedetto punta alla riduzione della CO2  nella produzione di questo prodotto, risultante in un risparmio di 10672 tonnellate di CO2 nel processo totale di produzione.

L’azienda vorrebbe investire ulteriormente nella linea BIO, ma il consumatore oggi non accetta l’aumento del costo del prodotto confezionato in bottiglie in PLA.

IL FUTURO DELLE BOTTIGLIE IN PLA

Per riuscire a trasferire la produzione dal PET al PLA, occorrerebbe che la maggior parte dei produttori adattassero le loro linee di produzione per passare a questo tipo di imballaggio.  In questo modo, i costi del PLA si abbasserebbero ed il consumatore sarebbe obbligato ad acquistarlo.

Tuttavia, anche le infrastrutture dovrebbero adeguarsi, permettendo di smaltire l’imballo nell’organico oppure raccoglierlo separatamente per poi riciclarlo in nuovi impianti di riciclo.

Un’utopia?  Ad oggi ancora sì.

 

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